Il termine “Tao” significa “via”, intesa come cammino, divenire di tutte le cose, che oscilla fra due estremi opposti, simbolicamente rappresentati dal bianco e dal nero del cerchio, ovvero lo yin (femminile, oscuro, passivo) e lo yang (maschile, luminoso, attivo). Il cerchio in questione è disegnato in modo che ogni volta che uno dei due estremi (bianco o nero) viene raggiunto, una forza invisibile lo spinga verso l’altro e così via in un eterno ciclo di opposti. In fondo non accade lo stesso nel cielo, quando sole e luna si alternano durante il giorno e la notte? Non accade lo stesso con le stagioni? L’una lascia il posto all’altra, in un moto perpetuo. E’ solo riconoscendo la duplicità insita nel nostro mondo interiore che si può imparare a fare pace con se stessi. Mettiamoci in ascolto degli opposti che albergano dentro di noi e nell’incontro con l’altro come specchio di sé, rivelatore della nostra identità. “L’altro sono io” perché l’ho attratto io: l’ha attirato la mia parte inconscia, quell’ombra che vuole venire alla luce per chiarificarsi, ripulirsi, conoscersi, migliorarsi.
Perciò ognuno di noi contiene entrambe le parti di ciò che noi chiamiamo opposti. L’uno è necessario all’altro, ma non solo, entrambi sono importanti per la costruzione dell’Uno. Ciò che è più cupo, o difficile da vedere e perciò da accettare per noi, è in realtà la parte che ci darà l’opportunità di conoscerci e quindi di crescere. Si cresce nella consapevolezza, si cresce nel cammino, si cresce nel “fare” e quindi nell’esperienza dell’incontro. Con l’altro, con noi stessi, con le cose della vita.
Buddha, nel Sutra del Cuore, dice:
“La forma non è differente dal vuoto,
il vuoto non è differente dalla forma,
eppure la forma è forma e il vuoto è vuoto”
Questo passaggio è illuminante se letto con la parte più sensibile e sensitiva di noi. Se lo leggiamo con il nostro cervello cognitivo, ovviamente ci sembrerà un paradosso, ma racchiude l’essenza di ciò che è. Permette di sentire la pace della stasi, nel movimento infinito delle cose. Sono parole che parlano da sole, è infatti difficile commentarle, vanno lasciate risuonare dentro di noi, come la vibrazione di una campana tibetana. E’ un’esperienza più che una comprensione cognitiva.
Un’esperienza che lascia spazio, anzi, apre spazio… Allarga la prospettiva e se ci fermiamo un attimo, possiamo sentire la pace che emana questa apertura.
Facendo il vuoto, possiamo accedere alla forma, esse sono entrambe presenti, ma noi riusciamo a percepire una sola di queste due cose alla volta. In realtà sono, entrambe. Ne facciamo esperienza quando siamo particolarmente rilassati, magari in vacanza o in momenti calmi, dove la nostra mente ci bussa per farci notare che manca qualcosa, che dovremmo fare qualcosa, che è strano quel momento di … Niente. Nella società veloce in cui viviamo, ciò che non produce sembra sbagliato. In realtà quelli sono i momenti più produttivi di tutti, sono quelli in cui può svilupparsi la creatività, come in un momento di meditazione, dove nasce all’improvviso un’idea, un’intuizione e noi ci stupiamo. In realtà è già tutto dentro di noi, le risorse sono dentro di noi, sono noi. Dobbiamo fargli spazio, fargli vuoto, perchè possano germogliare. Ci vuole il terreno giusto e tutto arriverà, nel proprio momento miracoloso e unico.
Dobbiamo provare a fare vuoto e scopriremo qualcosa di nuovo, che è sempre stato lì.